Il “Luvàt”

Il Luvàt

In questo articolo racconteremo di un raro e misterioso oggetto, utilizzato soprattutto nell’antico mondo contadino, il Luvàt.

di Emilio Veggetti

Che cos’è il “Luvàt”

Il “luvàt” (o “traplàt”) era il nome – in dialetto bolognese – che si dava alle trappole per topi o, più raramente, per uccelli, che venivano utilizzate soprattutto in ambito rurale e agricolo fino alla fine degli anni 60 del secolo scorso.

Era un oggetto fondamentale nelle case dei contadini, in quanto il topo rappresentava un problema enorme: era portatore di malattie, si cibava delle preziose derrate alimentari conservate solitamente nei solai e nelle cantine oppure, in casi estremi e se particolarmente affamato, poteva attaccare fisicamente animali e uomini.
Esistevano persino ditte specializzate che si recavano a casa dei contadini, per svolgere veri e propri interventi di disinfestazione manuale dei ratti: si trattava di un mestiere talmente apprezzato, che la tecnica di cattura veniva spesso tramandata di padre in figlio.

Come funzionava

Chi costruiva “al luvàt”, era il fabbro.
La trappola era costituita da 2 semicerchi a specchio che si aprivano a 180 gradi, collegati ad una molla, in mezzo ai quali era presente una piccola staffa con un chiodo sul quale andava collocata l’esca.
La vibrazione della staffa faceva scattare la molla e questo permetteva la chiusura immediata dei 2 semicerchi, che intrappolavano subito l’animale.

Nel gergo comune

Ma “luvàt” era una parola utilizzata anche in ambito metaforico. Ad esempio, quando un ragazzo si fidanzava, all’interno del suo gruppo di amici poteva sentirsi dire frasi come “ti hanno preso nel luvàt”: non hai più fuga dalla vita di coppia… ti hanno intrappolato!

Nella foto un esempio di luvàt o traplàt

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